Iniziato a marzo del 2018, il progetto biennale guidato da Marina Bouchè del Dipartimento di Scienze Anatomiche, Istologiche, Medico legali e dell’Apparato Locomotore dell’Università La Sapienza di Roma aveva come obiettivo principale quello di identificare e caratterizzare le cellule immunitarie responsabili dell’attivazione del processo infiammatorio nel cuore e nel diaframma distrofico per valutare l’applicabilità di nuovi potenziali trattamenti mirati a contrastare le complicanze tardive nella distrofia muscolare di Duchenne
In questo progetto abbiamo voluto indagare l’efficacia di un approccio farmacologico antinfiammatorio, alternativo ai cortisonici, per la distrofia muscolare di Duchenne, al fine di migliorare la cardiomiopatia che colpisce la grande maggioranza dei pazienti distrofici. In particolare, abbiamo utilizzato un inibitore della PKCθ, una protein chinasi cruciale per l’attivazione della risposta immune, il C20. Precedentemente avevamo dimostrato la sua efficacia nel prevenire gli eventi precoci della patologia, a livello del muscolo scheletrico, utilizzando nei topi mdx. Con questo progetto, sempre nello stesso modello animale, abbiamo voluto indagare la sua efficacia nel prevenire le complicazioni cardio-respiratorie tardive della DMD.A oggi, grazie all’introduzione delle tecniche di ventilazione assistita e ai farmaci per la prevenzione dell’insufficienza cardiaca, l’aspettativa di vita dei pazienti si è molto allungata (terza o quarta decade). Resta comunque necessario e cruciale esplorare approcci terapeutici volti a ridurre i processi infiammatori tipici di questa patologia nonché sperimentare molecole alternative ai glucocorticodi. Infatti, fra i moltissimi effetti collaterali sul lungo periodo, c’è per esempio l’induzione di atrofia nelle fibre muscolari, azione esattamente contraria a quella desiderata. Ciononostante, il miglioramento che si ottiene nelle prime fasi di utilizzo dei cortisonici rafforza il concetto che ridurre l’infiammazione muscolare incontrollata che accompagna la progressione della patologia possa aiutare a ridurre il danno muscolare, e di conseguenza la sostituzione di tessuto muscolare danneggiato con tessuto fibrotico non contrattile.
Risulta evidente da queste considerazioni, e in assenza di una cura definitiva, la necessità di cercare approcci antinfiammatori differenti, più specifici e con meno effetti collaterali. A tal proposito, il nostro gruppo di ricerca ha precedentemente sperimentato con successo un approccio farmacologico basato sull’inibire specificamente una proteina presente nei linfociti T, chiamata PKC theta. Questa proteina risulta importante nell’attivazione di queste cellule, che giocano un ruolo di “pilota”, organizzando e indirizzando le altre cellule immunitarie. L’inibitore specifico della PKC theta, chiamato C20, è risultato efficace nel prevenire il danno ai muscoli degli arti inferiori di un modello animale di DMD, il topo mdx. Ci siamo dunque chiesti se questo approccio potesse essere utile anche nel prevenire o rallentare l’insorgere della patologia cardiaca.
Durante il primo anno di finanziamento abbiamo intrapreso una caratterizzazione dettagliata dell’andamento della fibrosi e dell’infiltrato infiammatorio nel diaframma e nel cuore in topi mdx di diverse età, da 1 a 11 mesi di età. Per quel che riguarda il diaframma, il tessuto fibrotico si accumula già precocemente, a 1 mese di età, e aumenta con l’aumentare dell’età e la progressione della patologia, fino a rappresentare più del 50% dell’organo a 11 mesi di età, il che presumibilmente dovrebbe alterarne la funzionalità. Abbiamo inoltre osservato un picco di infiltrato infiammatorio a 1 mese di età, del tutto simile a quello precedentemente osservato nel muscolo delle zampe, che poi si riduce a livelli paragonabili a quelli osservati in animali non distrofici. Nel cuore, la fibrosi comincia a essere evidente più tardi, a partire dai 6 mesi di età, e aumenta progressivamente, anche se non raggiunge livelli particolarmente elevati. Anche in questo organo abbiamo osservato un picco di infiltrato infiammatorio a 1 mese di età e uno successivo a 11 mesi. Dal punto di vista qualitativo, le cellule che popolano il miocardio (componente muscolare del cuore) di topi mdx distrofici sono i macrofagi (51%) a cui seguono i linfociti B (28%), i neutrofili (8%), i linfociti T (7%) e i monociti a diversi stadi di attivazione (6%).
I macrofagi “residenti” sono cellule immunitarie con funzione di “sentinella” in grado di richiamare neutrofili e monociti dal circolo sanguigno con cui collaborano per la rimozione dei detriti cellulari nel tessuto danneggiato, creando un ambiente “infiammatorio” che, qualora persistente, può compromettere il mantenimento del tessuto. I macrofagi possono però anche acquisire funzioni diverse, contribuendo invece alla deposizione di tessuto fibrotico o anche al riparo del tessuto. Anche i linfociti B e T, reclutati dal circolo sanguigno in risposta al danno, contribuiscono all’attività delle altre cellule. L’abbondanza relativa delle singole popolazioni cellulari, la funzione che acquisiscono e la loro interazione determina la qualità dell’ambiente, contribuendo o meno alla fibrosi o al riparo del tessuto
Considerando la tardiva insorgenza della fibrosi cardiaca nel topo mdx, abbiamo progettato un protocollo di esercizio forzato in stile “cardio”, mirato a far lavorare il cuore e di conseguenza accelerarne il decorso patologico. Infatti, il topo mdx è un modello geneticamente molto aderente alla DMD, ma presenta una patologia cardiaca più lieve e tardiva rispetto ai pazienti. Per aggravare e velocizzare l’insorgenza delle alterazione cardiache nel topo mdx, senza introdurre nuove mutazioni o altre alterazioni genetiche abbiamo quindi progettato un protocollo di esercizio allo scopo di rendere il quadro clinico più simile a quello umano. In alternativa, esistono modelli animali in cui la cardiomiopatia è più grave che nell’mdx, ma ciò è conseguenza di ulteriori alterazioni geniche (per esempio il topo in cui oltre alla distrofina manca anche l’utrofina, oppure in cui è stata alterata l’espressione della telomerasi), che non rappresentano quindi le alterazioni geniche dei pazienti DMD. Come primo passo in questo studio abbiamo dimostrato che, in risposta al protocollo di esercizio da noi stabilito, il topo mdx (che definiamo “mdx esercitato”, mdx-ex) presenta già a tre mesi di età la patologia tipica di topi di un anno, in termini di fibrosi ventricolare, ingresso di cellule infiammatorie e morte (necrosi) dei cardiomiociti. Un punto importante è che le alterazioni morfologiche osservate sono accompagnate da trasformazioni funzionali e le analisi ecocardiografiche, mirate ad analizzare la capacità del cuore di pompare sangue nell’aorta, hanno infatti dimostrato un netto peggioramento dell’mdx-ex rispetto all’mdx di controllo della stessa età. Anche in termini di infiltrato infiammatorio, da un punto di vista sia quantitativo che qualitativo, il topo mdx-ex è sovrapponibile a quello osservato in topi mdx di 11-12 mesi. Rispetto all’mdx, abbiamo quindi generato un modello più idoneo allo studio della patologia cardiaca distrofica,.
Utilizzando il modello mdx-ex abbiamo quindi sperimentato l’approccio farmacologico. I topi mdx di 3 settimane di età sono stati trattati con il C20 alla dose di 5 mg/kg due volte a settimana per via intraperitoneale. Un gruppo di controllo ha invece ricevuto un placebo. Dopo una settimana, ambedue i gruppi di animali sono stati sottoposti al protocollo di esercizio per le successive otto settimane. L’analisi morfologica ha dimostrato che il cuore dei topi trattati con il C20 presenta una drastica riduzione di infiltrato infiammatorio, accompagnata da ridotta fibrosi e necrosi dei cardiomiociti, rispetto al gruppo trattato con il placebo. Questo risultato dimostra che l’azione farmacologica mirata verso una sola proteina e un solo tipo di cellula immunitaria può non solo ridurre “a cascata” l’attività di tutte le altre popolazioni immunitarie, ma altresì l’accumulo di danni nel muscolo cardiaco e quindi la sostituzione di tessuto contrattile con tessuto fibrotico.
Il nostro studio rafforza dunque la possibilità di un’azione mirata e non generica per contrastare l’infiammazione muscolare della DMD, oltre a fornire un modello del topo mdx più idoneo per lo studio di eventuali strategie farmacologiche finalizzate alla prevenzione o al trattamento della patologia distrofica nel cuore. Inoltre, i nostri risultati confermano la proteina PKC theta come possibile bersaglio farmacologico per prevenire processi infiammatori, non solo nella DMD ma anche in altre patologie caratterizzate dalla risposta abnorme del sistema immunitario.
La nostra speranza è che i risultati di questo studio consentano lo sviluppo di una nuova terapia farmacologica efficace che possa essere sperimentata con studi clinici per i pazienti affetti da distrofia muscolare di Duchenne.
I risultati di questo studio sono oggetto di due manoscritti in preparazione.