COMUNICARE ai genitori che il loro figlio è affetto da una patologia genetica degenerativa è una delle esperienze più delicate e difficili. Si tratta di ribaltare improvvisamente una serie di aspettative e di speranze poiché fino a quel momento i genitori hanno quasi convissuto con un figlio immaginario. La scoperta di un bambino con una patologia genetica fa crollare le proprie attese e genera un’esperienza di crisi emotiva.
Le reazioni emotive dei genitori, anche se variabili da caso a caso, seguono un decorso abbastanza tipico. Inizialmente ha il sopravvento uno stato di shock, poi segue incredulità che si alterna ad angoscia, profonda tristezza, senso di impotenza e rabbia. Si tratta di reazioni di normale adattamento ed è opportuno che si verifichino e che si manifestino apertamente.
Pian piano si instaura il periodo di adattamento. L’ansia e l’impotenza fanno posto a un maggiore equilibrio interno, si fa strada il senso di accettazione e di adattamento alla nuova realtà, fino alla riorganizzazione.
La fase di accettazione si rende evidente quando i genitori cominciano a parlare e a descrivere il proprio bambino non in base alle sue caratteristiche patologiche, bensì ai suoi comportamenti normali. Le paure più rilevanti sono passate, vengono apprezzati gli aspetti positivi, le fantasie lasciano il posto ai tentativi di soluzione dei problemi reali ed inizia una costruttiva partecipazione alle decisioni di trattamento.
Il processo di adattamento alla patologia viene influenzato dalla modalità in cui viene comunicata la diagnosi e per questo motivo l’attenzione medica si è concentrata molto su questo momento.
E’ bene sottolineare come non esiste un protocollo o una serie di regole fisse su come comunicare ai genitori la diagnosi di una patologia genetica, è importante però non dimenticare che è un momento di forte emotività sia per il medico che per i genitori.
In base alla letteratura scientifica è accordo che il medico debba comunicare subito il sospetto di una patologia e convocare in un secondo momento entrambi i genitori per comunicare l’eventuale certezza della diagnosi. La disponibilità di tempo è la prima dimostrazione di interesse e solidarietà, per questo motivo sin dal colloquio iniziale è opportuno aprire spazio per incontri successivi in modo che i genitori possano formulare domande, ascoltare risposte efficaci e far emergere problemi a cui non avevano avuto modo di pensare durante il primo colloquio.
Negli incontri sarebbe utile coinvolgere anche altri familiari come i fratelli e le sorelle oppure i nonni e condividere informazioni con il pediatra o altri specialisti coinvolti nella presa in carico.
Gli incontri dovrebbero avvenire in uno spazio privato, quanto più possibile, libero da interferenze di ogni tipo nel rispetto della famiglia e dell’importanza del momento e dedicando il massimo di tempo possibile. La fretta del medico, in parte, può essere una reazione normale, è una dimostrazione di fuga da una situazione frustrante, un tentativo di sottrarsi a una serie di domande alle quali è difficile dare risposte precise.
La comunicazione di diagnosi dovrebbe essere fornita con precisione e sincerità, ma senza la pretesa di completezza. I genitori preferiscono informazioni limitate alle caratteristiche principali della patologia, infatti l’emozione del momento può impedire ai genitori di assimilare informazioni successive anche se chiare e corrette. La descrizione della condizione deve essere seguita dalla presentazione dei trattamenti possibili indicando il centro specialistico di riferimento più accessibile per un’assistenza multidisciplinare ed integrata con i servizi territoriali. Emerge l’utilità di valutare le conoscenze già in possesso dei genitori e l’eventuale capacità di comprendere le informazioni e sollecitare domande e l’espressione di dubbi.
Inoltre, si raccomanda sempre di dare indicazioni su associazioni di genitori per avere utili contatti con chi ha già avuto esperienze simili, per poter ricevere ulteriori informazioni e proposte di soluzioni ai problemi che si possono incontrare nel tempo.
Nel periodo successivo alla diagnosi ogni persona costruisce una nuova immagine del figlio e del suo progetto di vita o di se stessi, si attivano risorse quali autostima, autoefficacia e senso di responsabilità per il figlio, fattori che possono rinsaldare la percezione di sé e creare maggiore stabilità.
Rivelante e non secondario è poi il momento delicato della comunicazione delle proprie difficoltà al bambino affetto e ad eventuali fratelli o sorelle. Molti genitori trovano difficile parlare con i propri figli, specie se piccoli ed in particolare di argomenti o situazioni «gravi» e questo può generare un circolo vizioso. Infatti il genitore ha paura a parlare con il bambino; il mistero attiva nel bambino fantasie negative; il genitore legge le fantasie negative del bambino come malessere e il bambino, pur realizzando che qualcosa non va bene, tace per non fare del male al genitore. Pertanto per mettere ordine in questo insieme di situazioni, bisogna essere il più possibile «trasparenti» e comunicare, condividendo informazioni e porsi in una prospettiva di ascolto.
Allo stesso modo è fondamentale la comunicazione anche ai fratelli, spesso «dimenticati» e confinati a ruoli marginali nell’ambito della famiglia. Anche se ritenuti troppo piccoli per comprendere, gli altri figli si accorgono molto precocemente delle differenze tra sé stessi e il fratellino, in particolare quando sono evidenti le difficoltà motorie. Per questo motivo è necessario spiegare anche agli altri figli che cosa abbia il fratellino: sarà così più semplice per loro comprendere perché egli abbia bisogno di particolari attenzioni e cure. La disponibilità, la serenità e la chiarezza degli adulti nel dare le informazioni consentiranno al fratello di gestire più facilmente la disabilità, di integrarla più armoniosamente con il mondo esterno e di sviluppare una riflessione interiore più consapevole. E’ desiderabile che a dare le prime spiegazioni siano i genitori.
COMUNICARE con il bambino non significa solo dare informazioni ma mettere in comune: creare un’atmosfera di condivisione che favorisca un passaggio sincero di informazioni e permette di aiutarlo a ricevere risposte. Tutto questo riduce la confusione e la paura, sviluppando così un maggiore senso di sicurezza e di protezione, rafforzando la fiducia in sè stesso e negli altri.
Non esistono delle regole assolute di una “corretta” comunicazione, tuttavia è importante utilizzare una modalità colloquiale, chiarezza e trasparenza. Si devono rispettare i tempi e l’età del bambino, fornire informazioni semplici ed essenziali, senza anticipare informazioni premature sulla patologia, privilegiando l’utilizzo di termini quali “difficoltà e problema piuttosto che malattia” e rimanendo disponibili ad eventuali domande.
Per poter essere più vicini al bambino e cercare di capire quello che vuole dirci dobbiamo parlare lo stesso linguaggio. Anche il gioco può rappresentare un mezzo molto importante per preparare i bambini a diverse procedure mediche o per comunicare una diagnosi.
Vista la complessità della situazione è sempre utile la condivisione e il confronto con uno/a specialistica che può supportare i genitori e esplicitare strategie specifiche per la condivisione secondo i momenti della patologia, e le fasi evolutive in cui si trovano i bambini e ragazzi.
In conclusione sintetizziamo che la diagnosi è un momento di grande disorientamento e comunicata con chiarezza favorisce l’inizio della fase di elaborazione della condizione sia per i genitori che per bambini.