Sono sempre di più i nuovi biomarker candidati per la distrofia muscolare di Duchenne e Becker, ma al momento nessuno è ancora stato validato come strumento diagnostico e di monitoraggio della malattia. Tre recenti studi internazionali puntano l’attenzione verso diverse proteine che sembrano correlare molto bene con le diverse fasi della distrofia.
Francesca Ceradini
Con l’avanzamento della ricerca scientifica e il costante incremento di nuovi trial clinici in avvio per la DMD e BMD, individuare e validare nuovi biomarker specifici per la patologia sta diventando un’esigenza sempre più urgente. Trovare i biomarker giusti vorrebbe dire poter diagnosticare e seguire l’andamento della malattia in maniera molto accurata, e soprattutto poter valutare e validare gli effetti terapeutici di nuovi trattamenti in sperimentazione.
Ma facciamo un attimo un salto indietro e partiamo dalle basi: cosa sono effettivamente i biomarker? In italiano vengono anche comunemente chiamati biomarcatori o marcatori biologici e sono quelle molecole, normalmente presenti nel nostro organismo, che possono essere misurate e monitorate per fornire informazioni sui processi patologici, come ad esempio determinare il tipo di malattia e lo stadio di progressione. I biomarker possono essere proteine, o acidi nucleici come l’RNA o DNA, presenti nei liquidi corporei (sangue, urine, saliva) così come nei tessuti o nelle cellule. La distrofina è il biomarker per eccellenza per la distrofia muscolare di Duchenne e Becker: la totale assenza di questa proteina nelle cellule muscolari indica la DMD, mentre una parziale presenza indica la BMD, forma meno grave della malattia. La diagnosi clinica della Duchenne e Becker mediante la quantificazione della distrofina comporta però una biopsia muscolare, e lo stesso spesso avviene per la valutazione di una nuova strategia terapeutica durante un trial. Un bambino che partecipa a uno studio clinico potrebbe, ad esempio, avere fatto in tutto tre biopsie muscolari, una per la diagnosi e due nel corso del trial clinico. Un approccio un po’ troppo invasivo, che pone dei problemi anche etici e per cui la comunità scientifica sta cercando di trovare una valida alternativa: nuovi biomarcatori affidabili, facilmente misurabili, presenti nel sangue, urine o saliva dei pazienti.
A questo riguardo negli ultimi anni sono stati condotti molti studi, alcuni anche a livello di network europei come ad esempio il progetto BIO-NMD finanziato dal Settimo Programma Quadro, e sono state individuate diverse molecole promettenti (tra cui alcuni microRNA) ma nessuna è ancora stata validata ufficialmente come strumento diagnostico e di monitoraggio della malattia. Il lavoro va quindi avanti e i ricercatori continuano a individuare e valutare nuovi biomarker. Recentemente sono stati pubblicati tre studi che propongono nuovi candidati, si tratta di proteine che sono presenti nel sangue e la cui quantità correla bene con la progressione della malattia. Un primo lavoro, che nasce dalla collaborazione tra l’Università di Newscastle e l’azienda farmaceutica Pfizer, è stato pubblicato su “Journal of Neuromuscular Diseases” e ha monitorato la presenza nel sangue di quattro proteine, normalmente prodotte nei muscoli, in pazienti con tre diverse distrofie muscolari. Un secondo studio, pubblicato su “skeletal Muscle”, è stato condotto da gruppi di ricerca brasiliani e francesi e ha invece puntato l’attenzione su una proteina che partecipa alla risposta immunitaria dei linfociti T. L’ultimo è un lavoro giapponese pubblicato su “The American Journal of Pathology” e propone come biomarker una citochina coinvolta nella rigenerazione muscolare.
Nel primo lavoro i ricercatori hanno condotto lo studio su 161 pazienti: 74 con la DMD, 38 con la BMD e 49 con la distrofia muscolare dei cingoli (LGMD), e su 38 volontari sani. Hanno monitorato quattro diverse proteine: la troponina I (TnI), che ha una funzione nella contrazione muscolare, la catena leggera 3 della miosina (Myl3), importante per la formazione del complesso contrattile del muscolo, la proteina legante gli acidi grassi (FABP3), che ha un ruolo nel trasporto degli acidi grassi attraverso la membrana cellulare, e la creatinchinasi specifica del muscolo (CKM), un enzima coinvolto nel meccanismo energetico della cellula. Il primo dato saliente è che tutte e quattro le proteine sono presenti nel sangue in concentrazioni molto più elevate nei pazienti rispetto ai soggetti sani e, in particolar modo, la quantità riflette la gravità e quindi il tipo di distrofia muscolare. Ad esempio, per CKM la concentrazione nel sangue dei pazienti DMD è ben 88 volte superiore rispetto alle persone sane, nei pazienti LGMD parliamo di un fattore 37 e nei pazienti BMD di un fattore 17. I ricercatori sono andati oltre a questi dati, importanti ma solo indicativi, e sono riusciti a determinare una stretta correlazione tra la quantità di questi biomarker nel sangue e la fase di progressione della malattia, soprattutto nel caso della DMD. Una prima osservazione è stata fatta riguardo alla deambulazione: i pazienti DMD ancora in grado di camminare, e quindi nella fase iniziale della malattia, presentano quantità più elevate di tutte e quattro le proteine rispetto ai ragazzi che hanno perso la deambulazione. Un dato che rispecchia nozioni già note, ovvero che con l’esercizio fisico e la contrazione muscolare si ha un maggiore rilascio di proteine dei muscoli nel sangue. Con la perdita di deambulazione e il progredire della Duchenne i pazienti vanno solitamente incontro a una diminuzione della massa muscolare, un indebolimento dei muscoli respiratori e l’insorgenza di cardiomiopatia. I ricercatori sono riusciti a dimostrare un legame tra tutti questi fattori e la quantità rilevabile dei biomarker nel sangue. Nello specifico, con l’aumento dell’età del paziente e la comparsa di sintomi strettamente legati alla degenerazione del tessuto muscolare si ha una progressiva diminuzione dei biomarker. Nessuna correlazione è stata invece dimostrata tra il trattamento con steroidi e la variazione delle concentrazioni delle proteine in questione. Gli autori del lavoro suggeriscono che con studi più approfonditi si potrebbe riuscire a determinare dei valori soglia di questi candidati biomarker che potrebbereo essere associati a specifiche distrofie e al loro grado di progressione.
A differenza di questo studio, quello portato avanti dai ricercatori brasiliani e francesi è focalizzato su un’unica proteina: CD49d. Si tratta di una componente delle integrine, le proteine responsabili dei meccanismi di interazione cellula-cellula o cellula-matrice extracellulare (ovvero l’ambiente circostante). Tra le varie funzioni, questi meccanismi di interazione sono anche alla base di molti processi cellulari tra i quali la risposta immunitaria, l’infiammazione e la rigenerazione di un tessuto. Il punto di partenza del lavoro pubblicato è l’osservazione che nei pazienti Duchenne si ha un’alta circolazione nel sangue di alcune cellule immunitarie, nello specifico di linfociti T CD4 e CD8 alle quali è legata la proteina CD49d. I ricercatori hanno approfondito il dato analizzando le concentrazioni di CD49d in 75 pazienti DMD, suddivisi in tre gruppi in base alla progressione della malattia (non deambulanti, in grado di percorrere 10m in meno di 10 secondi, in grado di percorrere 10m in più di 10 secondi). I risultati dimostrano che la quantità di CD49d nel sangue è correlata con lo stadio della malattia. I ragazzi non deambulanti hanno concentrazioni della proteina ben maggiore di quelli deambulanti, e tra questi la concentrazione aumenta con l’aumentare delle difficoltà nel camminare. Ma l’osservazione non si è fermata qui, i ricercatori hanno seguito negli anni 23 bambini DMD, dalla fase in cui ancora camminano alla fase in cui devono ricorrere alla carrozzina. L’andamento di espressione di CD49d nel sangue riflette perfettamente la progressione della Duchenne, un dato saliente per un futuro utilizzo di questa proteina nella valutazione di nuove terapie in sperimentazione. Anche in questo caso, gli autori non hanno però evidenziato nessuna correlazione tra l’assunzione di steroidi come trattamento per la patologia e la variazione delle concentrazioni di CD49d. Basandosi su precedenti osservazioni della presenza di linfociti T esprimenti CD49d all’interno degli infiltrati infiammatori nei muscoli, i ricercatori hanno ipotizzato un ruolo di questa proteina nel processo di infiammazione muscolare tipico della patologia. Con una serie di esperimenti hanno infatti dimostrato che CD49d interagisce con la matrice extracellulare e accelera il meccanismo di migrazione delle cellule immunitarie, alle quali è legata la proteina, verso le fibre muscolari potenziando il processo infiammatorio. Bloccando l’azione di CD49d la capacità di migrazione e il grado di infiammazione diminuiscono. Lo studio suggerisce quindi che CD49d, oltre ad essere un ottimo candidato biomarker, potrebbe anche rivelarsi un bersaglio per una nuova strategia terapeutica basata sulla riduzione della risposta immunitaria e del conseguente processo infiammatorio. Strategia che se abbinata ad altri approcci, più mirati al difetto genetico (exon skipping, terapia genica), potrebbe risultare vincente.
Anche il terzo lavoro ha puntato l’attenzione su una proteina, l’osteopontina (OPN), che si lega alle cellule immunitarie (CD44) e che è coinvolta nei processi infiammatori via meccanismi di interazione cellula-cellula o cellula-matrice extracellulare. Questa volta però lo studio non è stato condotto su pazienti ma su cani distrofici. I ricercatori hanno osservato che le concentrazioni di osteopontina rilevate nel sangue di cani distrofici, appena nati e fino a 3 mesi di età, sono nettamente superiori a quelle trovate in cani sani nella stessa fase di sviluppo. Inoltre, i livelli di osteopontina correlano bene con il grado di severità della distrofia. Studi precedenti hanno ipotizzato che l’osteopontina non agisca solo nel processo di infiammazione muscolare ma anche in quello rigenerativo, dato che è stato confermato da esperimenti condotti dai ricercatori giapponesi. Nello specifico, gli autori hanno utilizzato la cardiotossina, una sostanza contenuta nel veleno del cobra, per indurre un danno nel tessuto muscolare di cani sani e hanno successivamente osservato non solo la presenza di osteopontina nelle cellule immunitarie all’interno degli infiltrati infiammatori nei muscoli ma anche un notevole incremento di espressione nelle fibre in rigenerazione e nel sangue circolante. Nonostante questi risultati vengano da uno studio su modelli animali, e quindi un passo indietro rispetto agli altri due studi descritti su pazienti, la loro valenza risiede nel fatto che osservazioni simili, anche se meno dettagliate, erano state fatte qualche anno fa da un altro gruppo di ricerca su pazienti Duchenne. I giapponesi hanno infine dimostrato che c’è una stretta correlazione tra alti livelli di osteopontina nel sangue e la fase di rigenerazione muscolare associata alla DMD, lo stadio iniziale della malattia, ma non con la fase tardiva cronica, ovvero quando la rigenerazione muscolare è ormai inattiva. Su questa base il lavoro suggerisce che l’osteopontina potrebbe essere un utilissimo biomarker per valutare strategie terapeutiche che puntano ad agire sulla rigenerazione muscolare.
Un ultimo importante aspetto riguardo a questi tre lavori, presi nel loro insieme, è che tutte le proteine studiate sono conservate funzionalmente, ovvero hanno lo stesso ruolo, dai modelli animali utilizzati per la Duchenne, quali i topi e i cani, agli umani. Sono quindi degli ottimi candidati biomarker perché possono essere utilizzati trasversalmente nel percorso della ricerca traslazionale, ovvero dalla ricerca preclinica fino agli studi clinici. Un aspetto fondamentale per la loro validazione e successiva qualifica a livello internazionale da parte delle agenzie regolatorie (FDA, EMA) come strumento diagnostico e di monitoraggio della malattia. La speranza è che, in un futuro prossimo, si potrà monitorare la progressione della patologia in modo accurato permettendo una migliore gestione dei sintomi clinici e, perché no, permettendo di personalizzare una terapia (tipo e dosaggio del farmaco) a seconda della risposta del paziente ai trattamenti esistenti.